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Giù la maschera!

Ci sono sempre fiori per coloro che vogliono vederli. - Henri Matisse

Io mi sa che continuerò a portare la mascherina, anche quando non sarà più obbligatoria. Mi fa sentire più sicura.”

“Il virus è diffuso, è radicato, è virtualmente non arginabile né tantomeno tracciabile, ma la sua presenza non è più socialmente critica.”

La prima è una insegnante di scuola secondaria di primo grado, udita di sfuggita in aula insegnanti qualche giorno fa.

Il secondo è Michele Visini, titolare dell’omonima farmacia di Almè, in provincia di Bergamo.

Sono due visioni differenti. Una rappresenta una paura comune, lecita, radicata nella percezione collettiva dopo due anni di vita piuttosto complessi, l’altra un approccio più “rilassato”, di apertura e fiducia, con buone probabilità basato su dati scientifici.

Chi ha ragione?

Tutti e nessuno.

Il mio intento, scrivendone, è di sollevare riflessioni, nonché fare chiarezza dentro di me – dentro la mia, di paura, che cozza con la voglia di togliere tutto e abbracciare la fiducia a piene mani (letteralmente, proprio, riprendendo a dare abbracci e toccare mani).

D’altronde, io stessa:

confesso di avere paura quando mi volto sulla tramvia e vedo qualcuno senza mascherina, o con la mascherina abbassata sotto il naso.

Confesso di avere paura di contagiare me stessa o le persone anziane e fragili, a cui tengo.

Confesso però di non essermi preoccupata altrettanto, prima della pandemia, di poterle contagiare in altri modi.

Confesso che quando un alunno si abbassa la mascherina, sono pronta a riprenderlo, subito.

Confesso però che questo mio comportamento è diventato – mio malgrado – un automatismo.

Confesso di seguire ancora gli aggiornamenti sul numero di positivi e deceduti da Covid,

ma confesso di non farlo più regolarmente, o con l’ansia.

Confesso di chiedermi continuamente come mai non viene specificato nel dettaglio lo stato di salute dei nuovi positivi (quali sintomi hanno? Quanto sono gravi?), e se i decessi sono dovuti esclusivamente al virus o ad altre patologie.

Confesso che mi sono stufata delle modalità di trasmissione delle notizie su telegiornali e stampa.

Confesso di avere a cuore tutti i deceduti e le persone che sono state male finora (me compresa, che ho vissuto un grande dolore fisico post-vaccino, durato quasi un anno), ma

confesso che ho un grandissimo desiderio di andare avanti, di guardare avanti, di avere fiducia, ritrovare entusiasmo, speranza, gioia di vivere, di programmare, sognare.

Di sentirmi di nuovo “libera” – di muovermi, di parlare e sorridere a volto scoperto.

Michele Visini, farmacista, sostiene, in un articolo apparso su La Repubblica sabato 30 aprile 2022, che gli italiani non sono pronti ad un ritorno alla normalità.

Cioè, a togliersi la mascherina, ad abbracciare chi si incontra per strada, a scambiarsi mani, ad accorciare le distanze fisiche.

Dice Visini: “Credo che molta della titubanza che, a differenza del resto d’Europa, ci sta frenando, dipenda dalla paura: paura di stare male e poter fare del male agli altri, paura da parte della autorità sanitarie di non riuscire a far fronte a una nuova emergenza, paura da parte delle autorità governative di prendere decisioni sbagliate.”

La paura, dunque, questa emozione collettiva che ci prende alla gola, che non ci fa ragionare, che si spande in vari ambiti della nostra vita (basti pensare, fra tutti, alla paura “primordiale” per l’Altro, il “diverso”, e alle conseguenze che ne derivano).

Paura che è comprensibilissima – aggiungerei – perché, come precisa Visini, “legata al trauma collettivo che ha toccato nel profondo ogni persona.”

Le riflessioni del farmacista si allargano alla aspettativa, diffusa, di una sconfitta definitiva del virus: “La via d’uscita non è la sconfitta del Covid ma la convivenza con esso.”

BOING!

Mi è cascata una tegola in testa. Lo so, che probabilmente non lo sconfiggeremo mai del tutto, questo virus. Ma, d’istinto, rifiuto di immaginare una convivenza con lui! La mia mente, il mio cuore, la mia anima, il mio corpo, tutto di me inorridisce al solo pensiero che questo virus resterà per sempre tra noi. 

Perché mi rifiuto, ci rifiutiamo di accettare questa prospettiva? Pare che le nostre resistenze siano di tipo culturale: “Fatichiamo ad accettare un concetto che già a febbraio alcuni governi del nord Europa hanno accettato, e su cui si sono basati per decidere un cambio di approccio. Convivere inconsapevolmente con un virus presente, diffuso e ormai radicato tra noi, significa accettare di smettere di fare test per ricercare una presunta sicurezza (di fatto una chimera), per sé stessi e per gli altri”, osserva Visini.

Quanto è (ancora) sensato, ricercare un ipotetico tracciamento dei contagi, o allontanarsi se una persona mostra sintomi da raffreddamento? “Non ha più senso”, continua il farmacista, “non perché concettualmente sia tutto sbagliato, ma per il semplice fatto che realisticamente non porta a nessun risultato concreto.”

Cosa rimane, allora?

Oltre la paura. La sofferenza e il dolore fisico che questo virus può causare. Oltre la perdita delle persone che amiamo. Oltre il trauma collettivo.

Rimane, secondo il farmacista, “la ricerca di una convivenza più serena possibile.

Giù la maschera?

Chissà.

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1 Comment

  1. Il minimo comune multiplo di questi mesi è la paura (del virus o del vaccino), mentre il suo massimo comune denominatore la libertà di cura.
    Un mio timore è che respirare per mesi in tessuti di plastica alle lunghe non favorisca il benessere dell’apparato respiratorio, soprattutto nei più giovani.
    Per vedere questi anni di difficoltà sanitaria e sociale sotto un’altra lente che non sia quella ufficiale (nazionale-mediatica-istituzionale) consiglio poi questo sito/libro: https://www.libroserenaromano.it/


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