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In oscillazione, di stazione in stazione: un caffè con Alessandro Mistrorigo

Ecco la nostra intervista ad Alessandro Mistrorigo, professore associato presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell'Università Ca' Foscari Venezia, e autore delle raccolte poetiche "Quel che resta dell’onda" (Sinopia, 2008) e "Stazioni" (Ronzani, 2018).

Bevi caffè? Se sì, che rapporto hai con il caffè, e come ti piace berlo?

Alessandro: Sì, bevo caffè. Fino a qualche anno fa lo bevevo con lo zucchero, ora lo bevo amaro. Per me il rito è il caffè del mattino, lo faccio io a casa con la caffettiera –o moka, o “cógoma”, in veneto– e lo bevo in un bicchiere di vetro che è un ex-vasetto di nutella. Mi piace aspettare il vapore della caffettiera –o moka, o “cógoma”, in veneto– che è simile a una piccola locomotiva: ecco che il mio giorno –my journey– inizia.

Qual è la tua “passione” nella vita, qualcosa che fai con estremo piacere, che ti riesce bene, con gratificazione e successo personale, un tuo “talento”, che ti ha portato dove sei ora?

Alessandro: Non so. Bisognerebbe cominciare con capire che cosa significa la parola “passione”. Nella tua domandala descrivi come qualcosa che si fa “con estremo piacere”, anche se la parola deriva dal latino“passio,-onis”ed è collegata al verbo “patior” che, in realtà, significa “patire, soffrire”.Non voglio essere pedante, ma semplicemente non dimenticare che ogni passione ha in sé anche questo significato. Non è qualcosa che si fa solo ricavandone del piacere; una passione costa anche della fatica, quando non propriamente sofferenza. Per me è un po’ così, vivo questa ambivalenza in tutto quello che faccio. In questi termini, penso di poter dire che vivo con una certa passione sia le cose che faccio a livello professionale che quelle più liberamente creative. Riguardo al talento, forse l’unico vero talento che credo di aver esercitato in questi anni è stata la pazienza. Gandhi diceva che “perdere la pazienza significa perdere la battaglia”. Ecco, ho la sensazione che se mai ho vinto qualche battaglia, lo devo a questo esercizio. D’altronde, uno dei non luoghi che preferisco sono le sale d’attesa, specialmente quelle degli ambulatori dei medici di condotta…

Pensa a una parola-ispirazione per te, che ti guida nella vita e nel lavoro, e che condivideresti con chi ha un sogno ma ancora non riesce a dargli forma concreta. Quale parola sarebbe, e perché?

Alessandro: Scegliere una sola parola del tipo che mi chiedi è davvero molto difficile. Tuttavia forse una parola che racchiude in sé un intero modo di fare, di vivere, e che si potrebbe condividere con qualcun altro, regalandogliela, in effetti c’è. Si tratta di una parola che più che parlare o dire qualcosa di specifico,indica, mostra con l’esempio; ed è, quindi, una pratica. Mi riferisco alla parola “etica”; alla capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo e comportarsi di conseguenza. In tutto quello che facciamo e viviamo. Ho la speranza che l’esercizio di questa parola nel nostro vivere quotidiano possa cambiare la nostra stessa natura.

Qual è il tuo legame con l’Italia, e in particolare con Venezia?

Alessandro: Sono nato in provincia di Venezia, dove ho vissuto fino a vent’anni. In questa prima parte della mia vita credo di non aver mai riflettuto sul mio legame con l’Italia. Semplicemente ci vivevo e basta. Ci è voluto l’Erasmus perché il legame con il luogo da dove vengo diventasse in qualche modo visibile e quindi anche pensabile. L’anno di Erasmus ha cambiato o, meglio, ha aggiunto una prospettiva diversa a quelle che già possedevo. Si tratta di un’esperienza comune a molti ragazzi della mia generazione, nulla di speciale. Forse l’unica specialità del mio caso è che a quella prima esperienza in Spagna ne ho fatto seguire molte altre anche durante i miei secondi vent’anni e che, ad un certo punto, mi sono imbattuto ne Il dispatrio (1993) di Luigi Meneghello. Questo autore mi ha segnato subito in modo profondo e ora mi è particolarmente caro; anche perché è originario di Malo, in provincia di Vicenza. La famiglia di mio padre viene da quelle zone e, anche se io non ci ho mai vissuto (direi quasi forse proprio perché non ci ho mai vissuto), le sento come dei luoghi a cui, si direbbe, sono legato. A partire dalla lettura di Meneghello, ho cercato di riflettere anch’io sul legame con il mio paese, e le mie lingue (in primis, l’italiano e il dialetto) portando avanti questa linea di ricerca sia a livello professionale che creativo, organizzando su questo tema anche degli eventi letterari a Londra e a Madrid insieme ad alcuni amici. Ad oggi, mi pare che la relazione con i luoghi a cui potrei considerarmi legato sia sempre in evoluzione in base ai posti in cui mi trovo anche solo di passaggio e che il numero dei miei legami si moltiplichi a patire soprattutto dalle persone con cui sono in contatto. L’impossibilità di scegliere fra tante opzioni diverse offre una grande libertà di movimento e quell’oscillazione di cui parla Meneghello è un ottimo antidoto a un immaginario principio di non contraddizione geografico.

Quale è la “stazione” in cui vorresti fermarti e mettere radici?

Alessandro: La tua domanda nasconde una gentilezza e, per questo, ti ringrazio. Ho la presunzione che tu ti riferisca al mio libro Stazioni (Ronzani Editore, 2018). Si tratta di una raccolta di poesia in cui i testi poetici possono essere intesi anche come delle “stazioni” di un viaggio attraverso alcuni luoghi in cui ho vissuto e di cui porto con me un ricordo. Non è l’unica interpretazione possibile, come sai, nemmeno quella più corretta, eppure a partire da questa lettura alquanto semplice potrei riferirmi al testo che chiude il libro e potrebbe rappresentare una fatidica ultima stazione, quella in cui si scende definitivamente e si resta. Ebbene, quel testo nasconde una piccola dichiarazione d’amore che si esprime in forma di paradosso. Ecco: non so se sia questa la stazione a cui ti riferisci nella tua domanda, la stazione dove restare, mettere radici… lascio scegliere a chi vorrà avvicinarsi al mio libro… forse posso solo aggiungere che, per quando mi riguarda, mentre si resta, anche sempre si va.

Cosa vuol dire “lingua” per te, e soprattutto, “lingua materna”?

Alessandro: Diciamo che, per ciò che mi riguarda, “lingua” è una parola molto importante. Ho sempre dovuto averci a che fare. Dapprima con l’italiano e l’inglese, che ho iniziato a studiare fin dalle elementari, e poi con il latino e il greco al liceo. All’università mi iscrissi alla facoltà di “lingue”, dedicandomi in modo specifico allo spagnolo e al portoghese, e successivamente anche ad altre lingue come, per esempio, il turco. Oggi, lavoro insegnandole e occupandomi di oggetti che sono fatti di “lingua”. In un certo senso, quindi, potrei dire che per me “lingua” e “vita” sono due sinonimi. O due elementi complementari. Non c’è vita senza lingua, non c’è lingua senza vita. E in questo movimento di andata e ritorno, forse per rispondere anche alla seconda parte della tua domanda, mi sento di dire che non c’è un senso privilegiato. Allo stesso modo non c’è una particolare lingua che io senta di prediligere su altre. Sento che dentro di me ci sono lingue che stanno a profondità diverse, ecco, in luoghi più o meno familiari della mia memoria, del mio corpo, ma in nessun caso mi sentirei di formulare una gerarchia, per esempio, tra una lingua che posso parlare e capire meglio e una che interpreto o con cui mi esprimo con più fatica. Il tuo riferimento alla “lingua madre” è interessante per me perché questo termine si riferisce a un luogo profondo dentro di me, della mia memoria, della mia geografia, del mio tempo, che ogni volta che mi capita di parlarla o ascoltarla mi riporta un mondo di sensazioni ed esperienze personali. Lo stesso, però, accade anche con le altre lingue che parlo e intendo: il mondo evocato da una lingua o un’altra sarà necessariamente diverso, forse più o meno intenso, forse più o meno ricco, ma a mio modo di sentire ugualmente interessante e sempre da indagare. L’ultima cosa che mi pare interessante e che potrei aggiungere qui è che l’uso, l’esercizio, la pratica della “lingua”, che sia “madre” o meno, costituisce per me lo spazio – o gli spazi – in cui posso davvero frequentarmi, (ri)flettendo su me stesso.

Chi è il poeta, oggi? Il poeta vive nella società, o dove, di questi tempi?

Alessandro: Non so davvero rispondere a una domanda posta in questi termini. Il problema di chi o cosa sia “il poeta” al giorno d’oggi o“di questi tempi” e “nella società” mi lascia abbastanza indifferente. Non credo, infatti, che esista una simile entità, “il poeta”; un concetto che sembra una sorta di retaggio, un resto archeologico, di un pensiero di origine romantica (inteso come momento storico-culturale) e ormai degenerata(o popolarizzata) e che continua a sopravvivere in modo parassitario nella mentalità di chi interpreta la poesia e l’arte in generale come qualcosa di separato dal mondo. In questo modo, “il poeta” sarebbe una figura, un tipo definito, necessariamente diverso dal resto de “gli uomini” e de “le donne”. Generalizzazioni astratte e inservibili, dal mio punto di vista. Tuttavia, per provare a rispondere alla tua domanda, se me lo permetti, cambierei la domanda riferendomi a dove si può ancora provare a riflettere, a pensare, e quindi anche a scrivere, non solo poesia. L’impressione è che ci sia, almeno per quanto mi riguarda, la necessità di una sorta di isolamento, di silenzio e di immobilità. Con questo non intendo che solo chi vive come un monaco di clausura, come un eremita, può ancora scrivere. Nemmeno che chi scrive non dovrebbe avere rapporti con il mondo che lo circonda, con le persone che gli stanno vicino, ecc. Noto semplicemente che, in me, il luogo della scrittura e del pensiero si apre quando c’è dello spazio, quando lascio spazio. Quando rallento e resto. Questo anche in mezzo al mondo che mi circonda, sostando nella sua osservazione e auscultazione. Del resto, è questo il mondo che ci è toccato vivere e di cui siamo testimoni. A quest’ultima parola aggiungerei forse anche l’aggettivo “muti”: chi scrive, chi in qualche modo riflette, nella simultaneità dello spettacolo contemporaneo non ha ormai nessuna voce e nessun valore. E questo, specialmente in Italia, mi sembra un dato di fatto.

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Quale è il legame tra poesia e voce?

Alessandro: La complessa relazione che esiste tra linguaggio poetico e voce, intesa come la specifica voce fisica di un poeta mentre legge un proprio testo, è uno degli argomenti su cui si concentra la mia attività di ricerca da una decina d’anni. In particolare, mi interessano le registrazioni in cui un autore legge a voce alta una propria poesia. È stato proprio a partire da questo interesse che nel 2014, presso l’Università Ca’ Foscari, ho creato un archivio digitale con le voci registrate di poeti che leggono in diverse lingue. Il nome del progetto è “Phonodia” e l’archivio è attualmente consultabile online a questo link: http://phonodia.unive.it/. Inoltre, sullo stesso argomento, nel 2018 ho pubblicato una monografia in cui si trovano, oltre ad uno studio introduttivo che tratta di questa relazione, una serie di interviste a una ventina di poeti spagnoli contemporanei appartenenti a cinque generazioni differenti. Questo perché il mio interesse accademico si riferisce alla letteratura e, in particolare alla poesia, dell’area iberica. Ecco, quindi, che rimanderei a questi riferimenti perché, come capirai, sarebbe impossibile condensare tutto in questa risposta. Quello che, forse, posso raccontare però, è l’origine di questo mio interesse. Ricordo che quando ero piccolo avevo il terrore di leggere a voce alta. Specialmente in classe, alle elementari, succedeva che la maestra ci facesse leggere ad alta voce qualche storia e ricordo molto bene che ero terrorizzato dal fatto che pronunciasse il mio nome perché, da quel punto, dovevo io continuare a leggere. Più avanti negli anni, crescendo, ho avuto la fortuna di confrontarmi con questa mia paura, prenderne coscienza, dovendo leggere e parlare in pubblico frequentemente. Così è nata anche l’attenzione per la voce e per ciò che essa significa in chi la emette e in chi l’ascolta. Specialmente configurata come linguaggio poetico.

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