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A spasso con la vergogna

Haiku del mese

Oltre la vergogna c’è

la gioia che provi

ad essere te.

Io da piccola mi vergognavo tanto.

Perché mi piaceva andare a scuola: imparare, studiare, fare i compiti (specie gli esercizi di grammatica!), impegnarmi giorno dopo giorno, con costanza e applicazione (il sogno proibito di ogni insegnante!).

Quando arrivava l’ultimo giorno di scuola alle elementari, per esempio, ero felice, ovvio, come i miei compagni. Ma, a differenza loro, il pomeriggio stesso mi catapultavo in libreria per ordinare i libri delle vacanze. Ricordo la gioia quando finalmente ce li avevo tra le mani. Correvo a casa, mi sistemavo sul tavolone di ciliegio della cucina, aprivo il libro di italiano e grammatica con trepidazione, lo sfogliavo tutto, ammirandone consegne e illustrazioni. E mi mettevo subito a fare gli esercizi, sentendomi dentro un mondo ordinato, dove all’esercizio 1 seguiva l’esercizio 2, un po’ più complicato del primo, ma pur sempre accompagnato da immagini colorate. Arrivare a completare tutte le attività di italiano mi creava al tempo stesso un vuoto, e un piccolo stato di nirvana. Non sapevo che esattamente lì, dentro la mia lingua e i suoi meccanismi di funzionamento, avrei trovato, negli anni, la mia piccola felicità, la mia centratura.

Quello che sapevo invece, a 10 anni o poco più, è che mi vergognavo terribilmente di essere così. Di amare gli esercizi di grammatica. I compiti per casa. I temi di italiano. Avrei voluto nasconderlo ma prima o poi questo mio modo di essere saltava fuori, con derisione da parte di qualche compagno di classe. Perché, si sa, andare bene a scuola, essere, come si dice, una “secchiona”, ma soprattutto, amare la scuola, studiare con piacere e dedizione, è una cosa che non si fa!!

E più mi vergognavo, più mi nascondevo, a modo mio: dentro il mondo della scrittura. La scrittura diventava il mio antidoto alla vergogna, un riparo fidato dove trascorrere le ore lontana da giudizi esterni. Il mio spazio, solo mio, di cura personale.

Più mi additavano, gli altri, più io scrivevo, sfoderando la mia arma buona, intrisa di lettere dell’alfabeto, di parole.

Scrivevo su tutto: sulla tela cerata che ricopriva il tavolo in cucina. Dal mio nome scritto a caratteri decorativi, a esternazioni pseudo-amorose del tipo “Max mi piaci”, a strofe di canzoni o citazioni di filosofi. Una tela che è diventata un diario a cielo aperto.

Scrivevo su diari di carta, anno dopo anno, nascondendoli in un cassettone dietro il letto, e rileggendoli di tanto in tanto come fossero dei romanzi. Lì dentro conservavo il mio mondo emotivo, le prime delusioni, i piccoli sogni.

Scrivevo sulla Olivetti rossa della mamma. Che se ne stava sulla scrivania del salotto, dove io correvo subito dopo pranzo e prima dei compiti, e su cui premevo felice le mie dita veloci dando vita ai primi racconti, ispirati ai libri che leggevo.

Scrivevo alle elementari, di continuo, sotto la spinta di un gruppo di maestre sperimentali, che ci facevano esercitare giornalmente con la scrittura creativa, tanto da arrivare, una volta, a farci pubblicare un libricino coi nostri racconti sul Natale.

Scrivevo alle medie, dei lunghi temi, scegliendo di preferenza il racconto fantastico, che mi accendeva l’immaginazione facendomi scrivere pagine su pagine. E solitamente prendevo dei bei voti. E mi vergognavo, di prendere dei bei voti.

Ricordo la volta in cui la prof. ha letto ad alta voce a tutta la classe il mio tema “I miei passatempi preferiti” -, che ancora conservo in bella nel quaderno di antologia del 1985, classe ID, e che faceva così:

Un passatempo che ho è scrivere, mi piace perché posso fantasticare e inventare cose buffe e belle. Mi piacciono molto le poesie in rima e allora, qualche volta, ne scrivo alcune riferendomi ad una festa, come il Carnevale o il Natale. Oltre che scrivere mi piace leggere libri adatti alla mia età. Quando ne ho letto uno, mi viene subito l’ispirazione e allora prendo carta e penna e comincio a scrivere una storia inventata. Di solito quando ci sono giornate piovose e non ho niente da fare, mi metto subito a fare i compiti per il giorno dopo e anche per gli altri. Anche questo è una specie di passatempo”.

Ricordo di essere avvampata quando la prof. ha letto questo ultimo passo: fare i compiti, una specie di passatempo!! Ero appena arrivata in prima media: cosa avrebbero pensato i miei nuovi compagni, di me?

A pensarci oggi, con il cuore (e lavoro) di insegnante che mi ritrovo, mi dispiaccio per quel sentimento di vergogna che provavo davanti ai miei compagni, che mi paralizzava di fronte al loro giudizio. Che mi impediva di accettarmi e volermi bene semplicemente per quel che ero – incurante degli altri.

Ma perlomeno, con il senno di oggi, mi rallegro per avere usato la scrittura come àncora di salvataggio personale, nell’attesa di crescere e capire che la vergogna non serve, perché – checché ne pensino gli altri – andiamo tutti bene esattamente come siamo.

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2 Comments

  1. Una piccola meraviglia, ogni tuo scritto è così, una piccola meraviglia che si accoccola nel cuore! Grazie.

  2. Grazie Maurizio…quando scrivo a cuore aperto, non è mai facile…far uscire le fragilità, i lati bui…ma alla fine credo che l’autenticità non abbia prezzo, è il mio modo per arrivare al cuore degli altri 🙂


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