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Amare un tradimento

Forse noi due dovremmo ripartire da qui: dal diritto di essere amati semplicemente per ciò che siamo. Matteo Bussola, "La neve in fondo al mare"

Tutti siamo nati da due genitori, siamo figli o figlie, e conosciamo il peso delle aspettative dei genitori su di noi.

Ho smesso di preoccuparmi per le aspettative dei miei genitori su di me nel momento in cui ho capito che il mio vero obiettivo non è diventare una persona nota e abbiente, grazie alle lauree e al dottorato e ai master che ho accumulato negli anni (perché amo formarmi, imparare e crescere, innanzitutto), ma è fare ciò che mi rende felice. Che per me equivale a stare dentro le parole: che sia fare traduzioni dalla lingua che più amo, l’inglese, per chi non la conosce e mi leggerà, o scrivere articoli sul blog di una startup in crescita, per contribuire, nel mio piccolo, a farla conoscere nel mondo.

Ma ci ho messo del tempo, per raggiungere uno stato di serenità e pace con me stessa e i miei desideri più veri, indipendentemente da quel che si aspettavano da me i miei genitori, le persone che mi conoscono, la scuola, la società tutta.

Vivere in uno stato di continua attenzione ai desideri altrui, a quel che si aspettano le altre persone da noi – soprattutto i nostri genitori – rischia di creare uno stato di ansia. Si comincia da adolescenti (se non, ahimè, anche prima), chiedendosi “Sarò abbastanza, per loro? Andrà bene questo voto, ai miei? Saranno felici dei miei risultati? Accetteranno i sogni che ho, anche se sono diversi da quelli che loro hanno per me?”

In un articolo su Ansa.it del 10 giugno 2024, lo psicopedagogista Stefano Rossi definisce gli adolescenti di oggi “Generazione Ansia”. Giovani impregnati di ansia, di un sentimento di inadeguatezza continua, di fatica mentale, causati in primis dal tipo di società odierna, fondata sulla performance, sulla prestazione del singolo, che deve cercare in ogni momento e in ogni contesto di essere il o la migliore. C’è sempre una paura in agguato, nell’adolescente: non essere abbastanza – bello, magro, bravo a scuola, popolare. Per le altre persone, per gli amici e le amiche – per i genitori, sempre lì ad aspettarsi grandi cose.

Matteo Bussola ne sa qualcosa, del complicato rapporto genitori-adolescenti, che narra con toni vibranti nel suo ultimo romanzo, La neve in fondo al mare (Einaudi, 2024). La storia di un padre e un figlio dentro un reparto di ospedale: di un figlio che non mangia più, di un padre che non lo comprende più. La fragilità di un adolescente che cerca un proprio modo per urlare il dolore che ha dentro, il suo “no” alle aspettative di un padre e una madre. Le mille domande che si pone un genitore, per capire cosa è successo, dove ha sbagliato, dove si è incrinato il rapporto.

Li ho letti tutti, i libri di Matteo Bussola, amandoli tutti in modo diverso (come si fa con un figlio/una figlia?), e ritrovandoci una lingua comune: la lingua dell’amore puro, disinteressato, autentico e forte. La lingua della gentilezza, della morbidezza, della cura estrema. Mi ero detto “Basta, ora devo smettere!” come se questi libri, questa lingua, rischiassero di crearmi una dipendenza. Perché dopo averne letto uno, mi sentivo come se avessi ingoiato un’intera torta Sacher: in preda a un tasso glicemico altissimo! Mi ripetevo “No, no, non puoi ingoiare altro zucchero!”, Perché lo ritrovavo nella scelta delle parole, nello stile, nello scorrere delle frasi sulle pagine. Poi mi sono fatta attrarre dal suo ultimo libro, adocchiato per caso in biblioteca, e l’ho portato a casa con me (manco fossi passata in pasticceria!), e dopo averlo divorato sulla metro nel giro di due giorni, ho capito che, in realtà, la lingua di Bussola non è stucchevole: è vera. Racconta quello che non vorremmo sentirci dire, e lo fa con dolcezza, con delicatezza, perché quello che non vogliamo sentirci dire può essere tremendo: il figlio che soffre di anoressia nervosa, la figlia che si fa tagli su tutto il corpo, il figlio che soffre di depressione, la figlia che non smette di mangiare e ingrassare. Le persone più care che abbiamo, che si fanno del male. Che si fanno del male perché stanno male, e noi adulti non sempre riusciamo a intercettare questa sofferenza.

Un genitore può non essere consapevole delle aspettative che genera in un figlio/una figlia. Può farlo in maniera “leggera”, dando per scontato che sia quello che vuole il figlio/la figlia. Ci sono modi più espliciti e altri più sottili per comunicare che “Ehi, il 7 non mi basta, devi prendere almeno un 8!” oppure “Sei bravo/a a nuotare e il nuoto ti piace, mi aspetto che tu diventi il numero uno/la numero uno”. 

Un figlio e una figlia dovrebbero imparare a ripetere più spesso, ai genitori, “Io non sono te”. Ricordare che sono altro, non un prolungamento, non una loro sostituzione, il loro specchio. Che sono una unicità che poco (nulla!) ha a che fare con i desideri di chi li ha messi al mondo.

Solo verso la fine, dopo un percorso di dolore (condiviso), il protagonista del libro, padre, arriva alla conclusione che occorre lasciare andare le idee e i progetti che si hanno su un figlio. Su suo figlio.

Forse, si chiede il padre del libro, vanno cambiate le domande. Invece di chiedere, dopo la scuola, “Come è andata oggi?”, iniziare a chiedere “Come ti senti? Cosa ti ha reso felice o cosa ti ha messo in difficoltà?”. Accettare anche le risposte che non ci piacciono, che con vorremmo sentire, uno “Sto da schifo”, senza sentirci in dovere di fare gli psicoterapeuti (ma stando pronti a contattarne uno vero, in caso di bisogno), restando semplicemente in ascolto. Perché alla fine si è genitori: semplicemente umani.

Noi che cerchiamo di proteggere ciò che sarete, nell’ossessione di pianificare il vostro domani, invece di sederci accanto a voi ad abbracciare ciò che siete. Invece di aiutarvi a rivendicare il diritto all’imperfezione, allo sconforto, all’incapacità di accontentare gli altri”, riflette il padre protagonista.  

No, non funziona. Amare un figlio o una figlia, ci ricorda il padre protagonista, non è amare il sogno di noi genitori che si avvera nel figlio/a: “amare un figlio, o una figlia, vuol dire amare un tradimento, voler loro bene soprattutto quando sono molto diversi da ciò che si era sperato.

Grazie, Matteo Bussola, per avercelo ricordato.

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