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Donna e non danno

Io non sono la sola ad essere stanca, malata, triste o ansiosa, io sono tutt'uno con milioni di altri nel corso dei secoli, tutto questo è la vita. - Etty Hillesum

Le malattie creano varchi temporali.

Esiste un prima e un dopo, nella malattia. Il corpo-identità prima della malattia, e il corpo-identità del post-diagnosi. Un varco, nel mezzo, dove ci stai tu, con l’identità di sempre che conosci, e un’identità sconosciuta, in divenire nella malattia.

Francesca Mannocchi questo varco lo conosce, perché lo ha attraversato, come racconta con parole oneste e ruvide, di uno splendore lucido, nel suo ultimo romanzo Bianco è il colore del danno (Einaudi, 2024).

Anche io, l’ho attraversato, quel varco. Francesca Mannocchi e io abbiamo un “prima” nella nostra vita, di corpi sani, e un “dopo”, dove siamo finite in uno spazio inedito e inesplorato, quello del danno, del guasto che si è autoprodotto nel corpo, il regno delle danneggiate, delle non-più-sane.

A Francesca Mannocchi viene diagnosticata una forma di sclerosi multipla. Eppure, a vederla sembra tutta intatta, perfettamente in salute.

A me viene diagnosticata una forma di fibromialgia. Eppure, a guardarmi sembro tutta intatta, perfettamente sana.

Si tratta di due patologie diverse, questo è chiaro. Entrambe conoscono gradi di intensità e severità variabili da persona a persona. La fibromialgia è meglio definita come sindrome, una molteplicità di sintomi, anche se fra tutti prevalgono dolore intenso ai muscoli, legamenti e tendini, e astenia, cioè senso di debolezza e stanchezza, che non passa con il riposo.

Pur con modalità differenti, sclerosi e fibromialgia rientrano tra le malattie invisibili – e croniche.

All’apparenza, una persona con una malattia invisibile può sembrare del tutto sana, in perfetta forma. Eppure. Come si interroga Francesca Mannocchi nella storia della sua malattia: La sedia a rotelle ti fa malato, le stampelle ti fanno malato. Perché le stampelle, le stampelle, il bastone e la cecità si vedono. […] Sei infermo, indigente, disabile… […] il danno finisce per coincidere con quello che sei. Ma cosa sei, se il tuo danno non si vede?

Un danno invisibile ti porta a passare il tempo a giustificarti – come capita spesso a me: “Scusami, so che ti avevo detto che stasera saremmo uscite, ma non mi reggo in piedi.” “La cena è stata ottima, davvero, ma non ho la forza di restare oltre”. “Ho il corpo a pezzi, mi spiace ma non riesco a venire a camminare con te”.

D’altronde, come spiegare dei sintomi che non si vedono a occhio nudo?

Posso parlare di quel che succede a me, perché è quel che conosco.

Tu vedi una donna che sorride sui social.

Una donna che fa colazione su un tavolino in terrazza.

Una donna che legge un libro dopo l’altro.

Una donna che scrive al computer dentro una biblioteca.

Una donna che si ferma a bere il caffè in un bar.

Ma quella è anche una donna che non riesce a dormire o si sveglia prima dell’alba.

Si sveglia ed è come se il suo corpo fosse stato picchiato tutta la notte. Come se fosse stato mandato in frantumi.

Come se il corpo fosse rimasto schiacciato sotto il peso di una betoniera tutta la notte.

Ogni mattina, ha bisogno di molto tempo per riprendere l’uso fluido del corpo.

Quando esce per 10 minuti, le pare di aver corso la maratona di New York.

Sposta il corpo a fatica perché le dà la sensazione di pesare 100 chili.

Si sente sfinita anche senza aver fatto nulla.

Se un giorno esce da mattina a sera, il giorno dopo deve restare a riposo.

Gli oggetti la feriscono, perché premono sui suoi punti di dolore, in linguaggio scientifico i cosiddetti “tender points”: il divano dopo un po’ la ferisce sotto il sedere dietro la schiena alle braccia, il letto le colpisce ogni muscolo del corpo, come lame di coltello, le poltroncine e sedie dure dei mezzi dei bar dei ristoranti degli ospedali delle sale di attesa sono strumenti di tortura.

Le provocano dolore perfino i vestiti che aderiscono al corpo.

Quella donna sogna di poter volteggiare nell’aria, perché quello sarebbe l’unico modo per far riposare il corpo, senza fargli toccare nulla che possa ferirlo.

Il cibo nello stomaco le provoca reazioni dolorose, gli occhi le bruciano per le luci troppo forti, le orecchie soffrono a causa dei suoni troppo alti.

Quella donna ha dermatiti che le appaiono appena tocca certi detergenti o saponi, un fastidio pungente verso odori e profumi.

Ogni giorno, un sintomo nuovo.

Le scosse, gli spilli, le parestesie, le pulsazioni, perché spesso è un dolore migrante, che migra, che si sposta lungo il corpo, mai pago di dove sta, e allora non potrebbe migrarsene fuori dal corpo, per una volta?

La fibromialgia non ha una cura, perché non è ancora stato individuato il punto esatto su cui intervenire con una terapia ad hoc, il punto del sistema nervoso centrale da cui parte la percezione alterata del dolore.

La fibromialgia è una iper-sensibilità alla vita.

Da quando ho ricevuto la mia diagnosi, ho rimesso in questione il mio essere “intera”. Il corpo, mi apparteneva ancora tutto intero, o era diventato una somma di parti doloranti, indipendenti da me?

Ho ripensato a episodi del passato, anche lontano, in cui avevo avuto sintomi simili, di dolore muscolo-scheletrico estremo, di stanchezza estrema, senza motivo apparente. Forse il mio essere non-più-sana risaliva a ben prima della diagnosi? Anni, forse? Non lo so, e non lo saprò mai. Francesca Mannocchi stessa sottolinea questo aspetto, difficile da accettare per chi ha la malattia: Il paziente vuole sapere quando è successo che il suo corpo si è ammalato. Il malato cronico, il portatore di malattia autoimmune, non lo saprà mai.

Domande simili sul punto di comparsa della malattia se le faceva pure la poetessa Patrizia Cavalli, con la sua splendida ironia (da Sempre aperto teatro, 1999):

Tutto è accaduto ormai, ma io dov’ero?/Quando è avvenuta la grande distrazione?/Dove si è slegato il filo, dove si è aperto/il crepaccio, qual è il lago/che ha perso le sue acque/e mutando il paesaggio/mi scombina la strada?

La malattia ti spinge a farti domande, a ripensarti e indagarti nel passato, nel presente, nel futuro.

Il Dottore mi ha ricordato che la parola diagnosi in greco significa “riconoscere attraverso”, scrive ancora Francesca Mannocchi, E penso sia questo il patto con la stanza vuota e smucchiata: non posso guarire ma posso ri-conoscermi attraverso l’esperienza della malattia. Non posso abitare quella stanza come prima, ma posso mettere ordine nei pezzi che la bufera ha sbalzato a terra.

Senza rendermene davvero conto, dalla mia esperienza con la malattia è nata una raccolta di poesie, “La frammentata” (Ensemble, in fase di pubblicazione). Senza ancora aver letto il libro di Francesca Mannocchi, avevo avvertito la stessa sensazione di “corpo andato in pezzi”.

Pur non essendo incentrata esclusivamente sulla malattia, ma su un percorso più ampio che parte dal sentirmi frammentata all’accettarmi frammentata, questa raccolta è una mia reazione “creativa “al dolore – soprattutto quello acutissimo che ho vissuto a un braccio, rimasto bloccato per molti mesi, completamente immobile verso il basso, senza motivo apparente, senza che si trovasse una diagnosi (che poi è questa, in soldoni, la fibromialgia: il corpo percepisce sacche di dolore, pur essendo sano).

Stare dentro le parole, scrivere, così come leggere, è la mia cura: mi porta in una zona temporale nirvanica e salvifica dove stanchezza e dolore vanno a finire in sottofondo – per un po’. Ci sono, ma sussurrano invece di urlare. Come se mi concedessero del tempo di pace, con me stessa e con il corpo.

Anch’io, come Francesca Mannocchi, mi ri-conosco ogni giorno, grazie alla malattia. Sperimento nuove personali strategie di cura, scoprendo al tempo stesso parti di me, cosa devo assolutamente evitare, cosa mi fa stare meglio. Nemmeno io posso abitare la mia stanza di quando ero sana, ma anche io posso rimettere in ordine i pezzi sparsi sul pavimento.

Sarò di nuovo intera? Non lo so. Non so nemmeno se lo voglio – se ne ho bisogno, di sentirmi intera. Perché ogni frammento di me è un frammento della mia biografia, parla di me, mi dice ehi, tu sei anche questo – ma sei tante, tantissime altre cose. Ogni frammento ha una sua voce, un suo scopo, un suo valore.

Anche la mia malattia ce l’ha, un valore: mi fa sentire il corpo. Mi fa stare in ascolto di un corpo che forse si sentiva trascurato. Mi fa prendere cura, del corpo – nei frammenti, nonostante i suoi frammenti.

Alla malattia, poi, Francesca Mannocchi affida un colore. Il suo è il bianco, perché le lesioni sono di colore bianco. Mi sono chiesta quale colore abbia la mia malattia. Le ricerche dicono che, in corso di fibromialgia, diminuiscono la sostanza grigia e bianca di alcune aree cerebrali. Dunque, io ho poco grigio e poco bianco. Il che ci sta, perché mi sento dentro una gamma di colori in mutazione: rosso i giorni del dolore acuto, che brucia come lingue di fuoco sottopelle. Verde i giorni neutri in cui il dolore pare riposare, o quelli in cui rinasco dopo il dolore, bocciolo in primavera. Azzurro i giorni del dolore mite, in cui riesco a scendermi dentro, per ascoltare cos’ha da dirmi la malattia. Rosa i giorni della gentilezza nel dolore, che mi sussurra: non è una tua colpa, cerca di volerti bene, di volergli bene, al tuo corpo, anche quando dà voce al dolore.

Allora forse la mia malattia è un arcobaleno.

Se vuoi saperne di più, sulla fibromialgia, c’è un’associazione che se ne occupa a Milano e in Italia: Associazione Italiana Sindrome Fibromialgica. Clicca qui!

Se invece vuoi seguirmi, nel mio ruolo di life coach, mi leggi qui su IG. Una delle difficoltà di cui mi occupo, nelle mie sedute, è proprio l’approccio verso il dolore cronico. 

 

 

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